Il Surrealismo dei Beatles!
C’è un luogo che non esiste, eppure tutti ci siamo stati almeno una volta. Non ha confini e né tempo. È un giardino che profuma di malinconia e di sogni infantili. Si chiama Strawberry Field e non è solo una canzone. È un’idea. Un’utopia. Un frammento di memoria che Lennon ha trasformato in poesia sonora.
Doveva essere altro. Doveva finire in Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band, quel capolavoro che tengo come una reliquia nella mia bacheca di casa, prima stampa del ’67, copertina vissuta, vinile che ancora canta, ma Strawberry Field Forever scelse un’altra strada: quella del singolo, lato A, insieme a Penny Lane.
Due visioni opposte della stessa Liverpool: una solare, l’altra onirica. Come se McCartney e Lennon si fossero spartiti il cielo e la terra in una partita a pari e dispari. E forse è proprio lì, in quella divisione gentile, che si nasconde il segreto della loro alchimia.
La leggenda – e con i Beatles si parla sempre di leggenda – racconta che prima della versione definitiva furono registrate almeno sei varianti alcune con ouverture che sembrano preludi a un sogno. Per la prima volta si usò una macchina mastodontica: il mixer Studer J39, grosso come una stanza, doveva contenere quelle note che ancora non esistevano se non nella loro testa e far girare il suono come non si era mai fatto prima. Vero! Ne volete la prova? Ascoltatela con le cuffie: prima indossatele entrambe, poi solo la destra, poi solo la sinistra. Non da YouTube, per carità, ma da un vinile, da qualcosa che abbia ancora l’anima (…e va bene… vi permetto un CD, altrimenti mi date del boomer!).
Et voilas, sorry… There ya go! Quel giardino dell’orfanotrofio di Liverpool dove Lennon giocava da bambino diventa un luogo sospeso dove nulla è reale ma tutto è serenamente visionario. Dove si vola su e giù, tra turbolenze morbide, come in un sogno che non vuole finire. È il surrealismo beatlesiano, quello che non si spiega ma si sente. Come Magritte che dodici anni prima dipinse un cielo azzurro sopra un paesaggio notturno, in perfetto equilibrio tra sogno e realtà.
La coda orchestrale del brano è un capolavoro di manipolazione sonora, un trip mentale degno del miglior acido poetico. Qui i Beatles, insieme a George Martin (il loro produttore), utilizzano strumenti classici (archi, ottoni, flauti) mescolati a effetti elettronici, nastri invertiti, Mellotron e percussioni trattate. Il finale è volutamente disorientante: un crescendo che non esplode ma si dissolve lasciando l’ascoltatore sospeso, un po’ come quando si sogna di volare e ci si sveglia un attimo prima di toccare terra.
Il brano si chiude con una frase misteriosa pronunciata da Lennon e udibile solo se si ascolta al contrario: “cranberry sauce”, spesso interpretata erroneamente come “I buried Paul”, alimentando leggende metropolitane che ancora oggi fanno sorridere e pensare.
E allora Airlines Beatles ci invita a salire a bordo: il volo parte da un’infanzia perduta e arriva a un altrove che non ha nome. Le nuvole sono quelle immaginate dai bambini dell’orfanotrofio, e noi siamo lì, con loro, a guardare il mondo da un’altitudine emotiva. Ma non temete: quando riaprirete gli occhi, le chiappe saranno sempre al loro posto. Perché il viaggio è mentale ma le emozioni sono terribilmente vere. E in fondo, non è questo il senso di ogni sogno che ci resta addosso?