La solitudine dei manager che si svegliano Churchill e vanno a dormire come Mr Bean
C’è una solitudine che non fa rumore, non urla, non sbraita, non si lamenta ma c’è. E pesa. È la solitudine dei manager, quelli che si svegliano al mattino convinti di essere Churchill ma che alla sera si scoprono Mr Bean. Con meno carisma, meno strategia, e più goffaggine ma con lo stesso completo grigio.
Sono quelli che vivono in uffici trasparenti come le loro relazioni professionali: sguardi opachi, riunioni su Teams che sembrano sedute spiritiche dove si evoca il senso del lavoro ma non lo si trova mai. Parlano di KPI come fossero versetti del Vangelo ma non sanno nemmeno cosa significhi "fiducia operativa".
Il manager moderno è un solista spesso imposto da congiunzioni astrali intergalattiche non per talento, ma per insicurezza. Finge di delegare ma poi scatta l’operazione sorpasso: freccia a destra (avete letto bene…a destra e non a sinistra e lungi da me nell’inserire ideologia politica), accelerata e via. Ti chiede un parere ma solo per ignorarlo, ti coinvolge ma solo per escluderti. E tu resti lì a chiederti se sia la sindrome del cagnolino che deve marcare il territorio o semplice incapacità di dialogare.
Sono i numeri primi dell’azienda: indivisibili, irriducibili, irrimediabilmente soli. Si autoincoronano leader con la carta stagnola del kebab ma non sanno cosa vuol dire esserlo realmente. Si credono faro ma sono ombra. Si atteggiano a Churchill ma inciampano come Mr Bean in una riunione sul budget.
Il team? Esiste solo nei momenti di allineamento che poi “allineamento” è una parola che suona bene nei PowerPoint ma che nella pratica significa: “fate come dico io”. Il lavoro di squadra è un concetto da codice etico non da vita vissuta. E così il manager si ritrova a marcare il territorio con la grazia di un elefante in una cristalleria di Murano piena di turisti giapponesi e mille insicurezze.
C’è qualcosa di tragicamente poetico in tutto questo. Come Alice e Mattia nel libro di Paolo Giordano (leggetelo e fatelo leggere ai bambini!), si sfiorano senza toccarsi. Si parlano, si scrivono, si incontrano. Ma non si capiscono. Il manager diventa satellite, il team diventa asteroide. E l’azienda? Un sistema solare dove ognuno orbita per conto suo.
La solitudine del manager non è solo emotiva ma è anche strategica: è il rischio di decidere senza ascoltare, di agire senza capire, di comandare senza coinvolgere. È il pericolo di diventare un numero primo: brillante, unico, ma irrimediabilmente solo.
E allora, forse, il vero atto rivoluzionario non è guidare. È condividere. Non è decidere. È ascoltare. Non è essere Churchill ma è smettere di essere Mr Bean.