Diversamente strani, sbagliati ma felici

Qualche mese fa mi hanno invitato ad un “Job Day” per un orientamento professionale. Aula magna, ragazzi in fila, sguardi incerti, qualcuno con gli auricolari: diremmo il solito scenario. Ma non è mai davvero “il solito” se ci si ferma a guardare con più attenzione.

Davanti a loro ho parlato di me. O meglio, di quelli come me. Anzi, di quelli che erano con me. Tutti diversi, tutti “strani”. Ma cosa significa esattamente, “strano”? Michel Foucault, che non era certo uno che parlava per slogan, diceva che la normalità è una forma di controllo, insomma un modo elegante per stabilire chi sta dentro e chi sta fuori.

Ho pensato di iniziare citando Walt Disney: “tutti i sogni possono diventare realtà se abbiamo il coraggio di inseguirli”. Frase acchiappa click ma vuota ed ingenua: senza consapevolezza il sogno è una rotta senza bussola e si finisce alla deriva su una barchetta di carta.

Quindi cosa raccontare a questi ragazzi? Mi sono preparato con qualche dato. Per esempio: il 74% del nostro PIL proviene da aziende con meno di 250 dipendenti. Di queste la maggior parte non arriva nemmeno a 50. Sono officine, bar, parrucchieri, imprese familiari. È il Paese del “faccio tutto io” e funziona anche così.

Eppure oggi molti annunci di lavoro chiedono la laurea anche per rispondere al telefono. Il problema? Solo il 27% degli italiani è laureato contro una media europea del 42% e di questi quasi un terzo finisce a fare un lavoro per cui la laurea non serve. Studiamo ma non sempre per il posto giusto.

Nel frattempo le imprese italiane cercano tecnici specializzati come il Santo Graal: mancano operai qualificati, elettricisti, meccanici, programmatori, saldatori. Secondo Unioncamere nel 2024 più del 45% delle aziende ha avuto difficoltà a trovare personale tecnico. È un paradosso tutto nostro: formiamo filosofi e comunicatori ma poi nessuno sa più aggiustare un impianto.

Non che la filosofia non serva, intendiamoci ma un Paese non può vivere solo di citazioni di Socrate se poi nessuno sa cambiare la cinghia di distribuzione della mia auto.

E poi ci sono quelli che restano fermi. Nel 2023 in Italia oltre 1,7 milioni di giovani tra i 15 e i 29 anni non studiavano, non lavoravano e non cercavano neppure lavoro. Li chiamano NEET. Dietro quella sigla ci sono storie di paura, disillusione, sfiducia. Alcuni si spengono del tutto: si chiudono in camera, smettono di uscire, di vedere amici, di parlare. Li chiamano hikikomori. In Italia si stima siano più di 100.000. Non sono pigri. Sono ragazzi e ragazze che si sono persi in un mondo che ha detto loro troppo presto che per valere bisogna vincere con qualsiasi mezzo. E se non vinci, meglio non giocare.

E se avessero sbagliato percorso? Se avessero fatto non quello che volevano ma quello che è stato imposto — con le migliori intenzioni sia chiaro — da famiglia e società?

I numeri contano ma ogni tanto bisogna avere il coraggio di metterli da parte come si fa con le carte quando si vuole parlare davvero. Mi accorgo che sto diventando troppo asettico, troppo analitico, lontano dalle loro aspettative e mi fermo. Mi chiedo: cosa avrei voluto sentirmi dire quando avevo diciassette anni?

Forse qualcosa di semplice ma essenziale. Che prima di ogni regola, prima di ogni piano di studi, viene una condizione: essere felici. Lo diceva Aristotele che non era uno sprovveduto: la felicità è il fine ultimo dell’agire umano. E non provate a dirmi che la laurea in filosofia non serve perché senza quella frase oggi non saremmo qui a riflettere su cosa conta davvero.

Vi fa stare bene fare il pane? Fatelo. Vi piace il tornio, la fresa, il bancone da bar, il codice informatico, il giardinaggio? Fate che sia il vostro lavoro. Non c’è nobiltà nei mestieri, c’è solo dignità. Le mani non si sporcano con il grasso degli ingranaggi ma con l’illegalità.

Simone Weil diceva: “Il lavoro manuale è una via di accesso alla verità.” E chi siamo noi per contraddirla?

Non studiate per apparire, né per aderire a un modello di successo precostituito. Studiate per capire chi siete. Per essere, non per diventare. E cosa significa “essere”? Significa cercare la propria felicità, che è già una forma di ribellione in un mondo che misura ogni cosa in indicatori di KPI e crediti formativi. Se il cammino è autentico il risultato arriverà da sé.

La scuola non deve dire dove andare ma aiutare a capire chi si è. Senza etichette. Quelle vanno bene sui vestiti non sui ragazzi.

La laurea? Sì, è bella. Io l’ho presa. Ma prima ho sbagliato. Ho cambiato facoltà, ho fatto inversione a “U” in piena autostrada accademica. La mia testa era impazzita come un navigatore satellitare tra i carruggi di Genova. E non c’è algoritmo che tenga quando il cuore dice: “Non è qui”.

E allora, ragazzi e ragazze, se vi sentite sbagliati o strani sappiate che probabilmente state ragionando autonomamente. Il mondo ha bisogno di gente che possa sbagliare con passione, inciampare con stile, sognare con ostinazione. A prescindere dal titolo di studio.

E magari, un giorno, sarà proprio uno di voi a insegnare agli altri che la felicità non è una meta ma libertà di scegliere dove andare e mettersi in cammino.

Ultime due cose e poi vi lascio andare, promesso.

Far finta che i voti non contino è un falso moderno. Si scrive “voto” ma si legge “meritocrazia”. Non è una parolaccia ma è solo il tentativo di riconoscere l’impegno. Non è tutto ma è qualcosa.

Scegliere un percorso che porta a una chiave inglese invece che a un libro di Analisi Matematica 2 non significa smettere di essere curiosi. La curiosità deve vivere in un’officina così come in un’aula universitaria.

Il futuro, a tutte le età, non si affronta con uno slogan, ma con la consapevolezza dei propri mezzi altrimenti si chiama incoscienza. E l’incoscienza, a lungo andare, porta al vuoto e al fallimento personale. Il fallimento personale porta al fallimento della società di cui noi tutti facciamo parte.

E allora scegliete la vostra strada con gioia, con testa e con cuore.

Se possibile abbiate anche il coraggio di poter sbagliare (ovviamente senza intenzionalità) perché chi vi vuole bene vi rimarrà sempre vicino.

Ed alla fine il mio sguardo si perde in mezzo a questi ragazzi e ragazze con il mio cuore che batte un po’ più forte e gli occhi lucidi perché lì, da qualche parte, ci sono anche io. Anzi, c’è la mia classe delle superiori.

Tutti noi, nessuno escluso. Ma soprattutto quello lì arrivato al quarto anno. Uno che nonostante un diploma tecnico aveva scelto di shakerare cocktail invece di stringere bulloni e di inseguire le onde nonostante la monotonia delle risaie vercellesi. E ora quelle onde le cavalca altrove, in un’altra galassia. Un surfista con i trucioli color ruggine al posto dei capelli. Uno che aveva capito che la felicità non si trova nei piani di studio ma nel vento che ti spinge dove il cuore vuole andare.

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