Ho più Veleno io in corpo di un Cobra: Sti Caxxi!

“Ho più veleno io in corpo di un cobra”. Non è solo una frase ma è la fotografia di molti ambienti lavorativi perché il veleno, nel mondo del lavoro, non è nelle zanne, negli artigli o in qualche pungiglione ma è nei sorrisi di circostanza, nei feedback “costruttivi” che ti demoliscono, nelle riunioni fatte “per allinearsi”.

Il cobra almeno ti guarda negli occhi prima di colpire, nelle aziende spesso non succede: il veleno arriva via mail con oggetto “Gentile promemoria” o nella tanto pratica e veloce “chattina” di Teams. Foucault ci aveva avvertiti: il potere non è mai neutro ma è una rete invisibile che ti stringe mentre pensi di essere libero. Pirandello aggiungerebbe: “Uno, nessuno e centomila” perché dietro ogni sorriso c’è una maschera e dietro ogni maschera un pensiero che non ti immagini. Kafka? Lui ci ha spiegato che la vera metamorfosi non è svegliarsi insetto ma rendersi conto che la tua schiena è stata il bersaglio preferito di un tiro a segno.

Il veleno peggiore però non è quello che ti colpisce in ambiente lavorativo ma è quello che ti porti a casa: rimane sottopelle come tossine a orologeria. Non ce ne accorgiamo ma lavora dentro di noi. Lavora contro di noi. Poi esplode: in una cena rovinata, in un silenzio che pesa, in una rabbia che non sappiamo spiegare. Ti toglie il sonno, ti crea crampi, ti fa sentire perennemente sbagliato. E quando pensi di aver trovato un po’ di pace arriva “finalmente” il meeting del giorno dopo. Ti chiamano per nome, chiedono il tuo riscontro e mentre stai per rispondere interviene qualcun altro. Ti chiedi: “Ma si chiama come me?”. Oppure ti dicono: “Sei bravo ma ti perdi nei dettagli”. E tu vorresti rispondere: “Ma se a malapena ho un quadro generale della situazione come diavolo faccio a perdermi nei dettagli? "WTF?" (se non sai cosa vuol dire probabilmente sei nato prima del modem ADLS o hai fatto il chierichetto troppo a lungo).

E il veleno aumenta e per non morire cerchi un centro di gravità permanente (Battiato dixit) ma il nostro centro è un algoritmo che cambia ogni volta che ricevi un messaggio su Teams che educatamente ti fa sentire uno scemo. Siamo la prova vivente che “il paradosso del gatto imburrato” non è solo una teoria da nerd insonni ma è cronaca quotidiana: sospesi in un moto perpetuo tra la riunione che “dura solo dieci minuti” ed un “grazie/prego” che profuma di proiettile sparato a bruciapelo rigorosamente con il silenziatore. E nel frattempo durante la rotazione il burro si scioglie e sporca qualunque cosa pure chi ti sta vicino e ti vuole bene.

Curioso però come il siero antivipera venga prodotto proprio dal veleno della vipera stessa. Un veleno che, anziché distruggere, diventa cura grazie agli anticorpi di un altro animale (il cavallo). La natura, con la sua eleganza brutale, ci mostra che anche ciò che ferisce o peggio uccide può guarire con un elegante ma semplice gioco di squadra. Eppure noi, testardi e miopi, ignoriamo la lezione ed il gioco di squadra si limita al solito “prego vuol ballare con me, grazie preferisco di no, non ballo il tango col casqué, perciò grazie, prego, grazie, scusi, tornerò” (questa volta è il turno di Celentano).

E mentre cercavo un finale adeguato a questo post tornando a casa ho visto una scena che sembrava uscita da un film di Sorrentino. Appena fuori dalla stazione centrale di Milano non curante del caos una ragazza era sdraiata su una panchina, senza scarpe, zaino sotto il capo, cuffie nelle orecchie, libro tra le mani, baciata dal tiepido sole autunnale.

Non era bella per la forma ma per l’essenza perché mentre il mondo le correva accanto lei era “Altrove” (contenuta in un meraviglioso album di Marco Castoldi in arte Morgan “Canzoni dell’Appartamento” del 2003). Un altro pianeta. Un altro ritmo. Un’altra vita.

Quindi ho pensato: forse la soluzione non è trovare il centro di gravità permanente ma accettare che questo non esista perché il vero lusso oggi non è il potere, non è il bonus, non è il titolo sul bigliettino da visita.

Noi paladini della Generazione X, convinti di avere il copyright sulla saggezza, ci ostiniamo a distribuire pillole di verità non richieste. Peccato che su questo tema probabilmente (calmati…ho detto probabilmente!) non ha proprio torto quella generazione che volevamo “educare”.

Il vero lusso quindi è poter dire “sti caxxi”.

Chi la capisce si toglie un po’ di burro, smette di girare come il gatto e finalmente appoggia le zampe per terra. Si gode il paesaggio. O, meglio ancora, se ne frega del paesaggio e del mondo circostante e filtra tutto senza pietà fregandosene del sottoscritto che la osservava con invidia perché rischiavo di perdere il treno.

Perché la libertà, quella vera, non è fare tutto.

È scegliere cosa non fare.

È anche poter perdere il treno senza drammi.

E sti caxxi se è poco.

PS: il treno l’ho perso.

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