Il palindromo dell’anima: la danza immobile delle relazioni
C’è un quadrato inciso su pietre antiche, un enigma che attraversa i secoli: SATOR AREPO TENET OPERA ROTAS. Lo leggi da sinistra a destra, dall’alto in basso e il senso non cambia. È un labirinto perfetto ma che ti riporta sempre al punto di partenza, non ti perdi mai ma ti disorienta. Un palindromo che sembra raccontare la nostra condizione, oggi più che mai.
Viviamo in un tempo che corre e che non concede pause. Ci aggrappiamo ai nostri smartphone come fossero rosari, rincorriamo notifiche, accumuliamo contatti come medaglie da esibire. Siamo perennemente connessi e avvolti dalla socializzazione…ma con chi? La verità è che abbiamo il bisogno di essere visti, ascoltati, riconosciuti mentre il cuore rimane immobile e intorno girano le nostre “rotas”.
Le relazioni? Un intreccio fragile, fatto di fili che si annodano e si sciolgono senza mai spezzarsi. Cambiano i mezzi, cambiano le parole, ma il ritmo resta lo stesso: desiderio e paura, libertà e appartenenza, vicinanza e distanza. È la danza immobile delle emozioni che puoi girare come vuoi, ma il senso resta identico.
Un “like” sui social non è un abbraccio. Una chat non è una voce ma per mancanza di tempo e per paura ci illudiamo che basti. È la società dell’apparenza dove la comunicazione è immediata ma la comprensione è lontana. Dove la connessione è continua ma la solitudine cresce. Dove la relazione rischia di diventare algoritmo e l’anima un palindromo che ripete a se stessa senza mai cambiare: “Sator Arepo Tenet Opera Rotas”.
E qui entra in scena Escher (che in più di una circostanza ha totalmente messo in crisi la mia testa) con le sue scale impossibili: salgono e scendono, vanno a destra e a sinistra ma alla fine non portano da nessuna parte. Ti fanno muovere, ti fanno faticare, ma tu resti fermo nonostante il fiatone per aver fatto tutte quelle scale. È la stessa illusione che viviamo nelle relazioni di oggi: un continuo salire e scendere, un movimento che sembra progresso ma che spesso è solo un automatismo, un esercizio di scale inutili.
Il quadrato magico ci lancia una sfida: non basta muoversi, bisogna cambiare direzione. Non basta moltiplicare i contatti, serve coltivare la profondità perché se continuiamo a girare senza cambiare il centro la nostra socializzazione resterà un gioco di lettere o una scala di Escher: perfetta ma inutilmente vuota.
Forse il vero segreto è capire da che parte si vuole leggere il quadrato magico: le relazioni sociali non possono essere palindrome.
E allora la domanda è questa: vogliamo davvero continuare a leggere il mondo come un palindromo, salendo e scendendo scale che non portano da nessuna parte, lasciandoci trascinare da strade che portano ai soliti ingorghi oppure vogliamo finalmente essere noi a scegliere la direzione?
Riformulo: siamo pronti a smettere di ripetere ciò che è già scritto nel palindromo e a comporre, una volta per tutte, una frase nuova con un solo significato?
Nel 1988, nel suo album di debutto che porta semplicemente il suo nome, Tracy Chapman regala al mondo una canzone che diventa subito un manifesto generazionale: “Fast Car”. Io la amo, amo lei e tutto ciò che scrive perché non sbaglia un brano neanche a volerlo. Non è soltanto musica: è un racconto di vita.
La “macchina veloce” non è un mezzo di trasporto ma una metafora potente: la possibilità di cambiare strada, di ricominciare altrove con la forza della volontà e la consapevolezza che il futuro non è mai immobile.
Come accade nelle grandi canzoni però la realtà si insinua e incrina l’illusione. La fuga non basta, il sogno si scontra con la fatica quotidiana. Ed è proprio lì che “Fast Car” rivela la sua grandezza: ci ricorda che la libertà non è mai garantita, che il cambiamento non è un dono ma una scelta da rinnovare ogni giorno. Perché, in fondo, bisogna saper leggere nella giusta direzione il palindromo della quotidianità.
You got a fast car
Is it fast enough so you can fly away?
You gotta make a decision
Leave tonight or live and die this way

